L’integrazione degli alunni in situazione di handicap nella lezione di Ed. motoria e di Ed. fisica
di Marco-Paolo Dellabiancia
1) L’ORIGINE DELLE CLASSI SPECIALI
Nel secolo scorso in Italia l'assistenza ai giovani minorati appartenenti alle classi sociali privilegiate, se non sono abbandonati, si realizza nella famiglia d'origine, dove restano confinati per tutta la vita segregati dal mondo, mentre per quelli non appartenenti a tali classi ancora si attua prevalentemente negli asili predisposti dagli Ordini Religiosi per curare gli infermi e soccorrere i bisognosi. L'educazione consiste generalmente nel processo di formazione alle regole della vita quotidiana e nell'avvio ad un lavoro adeguato alle capacità dei singoli soggetti. In questo senso la società largamente agricola dell'epoca assorbe facilmente questa mano d'opera del tutto priva di qualificazione nelle campagne, dove le forme consociate di lavoro rurale favoriscono l'inserimento in un circuito sociale più ampio, mentre più difficili sono gli esiti nella città industriale nascente, dove si assiste ad una concentrazione dei minorati presso i ricoveri religiosi quando non ancora nelle carceri.
Al passar del secolo, però, con Maria Montessori ed altri medici di valore, le convinzioni pedagogiche del Positivismo avviano un nuovo impegno nella riabilitazione e nella rieducazione dei giovani disabili, fondato sulla prospettiva aperta da nuove scienze medico-psico-pedagogiche e sostenuto dalle prime associazioni benefiche laiche che fanno carico alle municipalità d'intervenire sull'assistenza, accanto alle altre istituzioni sorte nelle città maggiori per volontà di singoli privati benefattori. Si tratta di una prospettiva che tende a inquadrare il caso del disabile su di un piano medico e ad approntare un intervento differenziato e specializzato di insegnamento-trattamento per colmare le carenze nella dotazione dei soggetti a seconda delle categorie di handicap (non vedenti o gravi ipovedenti; non udenti o gravi ipoudenti; minorati dell'intelligenza).
Questa prospettiva che, da un punto di vista scolastico, produce scuole speciali o istituti medicopedagogici (a seconda se senza o con internato) completamente separati dalla scuola normale per anormali veri, cioè soggetti "educabili che non possono essere del tutto recuperati scolasticamente e socialmente, né parzialmente recuperati secondo l'ordinamento degli studi e la normale pratica educativa nelle scuole comuni" e classi differenziali nella scuola normale per falsi anormali e cioè per "soggetti ... che presentano incapacità o difficoltà di profitto e di adattamento nelle classi comuni, ma che possono - con particolari cure, assistenza e metodi essere totalmente recuperabili alla scuola comune" (cfr. bib. 1), permane come strategia d’intervento fin dopo dell'istituzione della scuola media unica nell'anno 1962, sopravvivendo per più di mezzo secolo anche all'ottica pedagogica neoidealista, ben presto subentrata alla prospettiva positivista con l'opera di G. Gentile, e non così favorevole a tale impostazione riabilitativa per diverse ragioni filosofico-pedagogiche.
Se si osserva bene, comunque, dalla classificazione di A. Benfenati mancano due categorie di minorati tra quelle presentate e precisamente la prima è quella che attualmente chiameremmo dei portatori di handicap plurimi o gravissimi, mentre nella categoria dei falsi anormali possono venir compresi in definitiva tutti gli alunni che presentano una qualche difficoltà di apprendimento o di adattamento. Per i primi l'assistenza è avvenuta negli Ospedali psichiatrici fino all'entrata in vigore della legge 180/78, quando progressivamente è stato avviato una trasformazione di tali strutture in sezioni medico-psico-pedagogiche di scuole (particolarmente attrezzate). Tuttavia non può sfuggire la fondamentale differenza che si realizza tra l’intervento su questi sventurati e
a) l’educazione e l’istruzione di gran parte dei non vedenti e non udenti che si realizzava, sia con un buon livello metodologico-didattico, sia con una buona dimensione d’accoglienza, nelle scuole speciali e negli istituti dei due Enti nazionali, progressivamente quasi tutti statalizzate a partire dagli anni ‘60, e poi integrate all’incontrario con l’apertura ai soggetti non portatori d’handicap, dove ciò è stato possibile, poiché il problema consisteva prevalentemente nel mettere in atto forme specifiche e speciali di insegnamento compensativo della carenza sensoriale a cui le istituzioni erano ampiamente predisposte;
b) la scolarizzazione di alcuni portatori di handicap fisico (paralitici, motulesi paraplegici e poliomielitici) e di malattie organiche (diabetici, epilettici) si è realizzata nelle classi speciali dei sanatori e degli ospedali, nelle scuole e classi all’aperto, nei villaggi del fanciullo, nelle case del sole ecc.. Anche in questi casi, poiché la patologia sofferta lasciava indenni, infatti, le possibilità di studio e apprendimento, si trattava prevalentemente di problemi legati all’organizzazione della vita scolastica o al superamento delle barriere architettoniche (lo stesso che accade ancora oggi, dunque!).
In queste direzioni si è sviluppata tutta un’area di riflessione pedagogica che ha presieduto all’elaborazione concettuale dei processi educativi e didattici diversi da quelli che abitualmente si rivolgevano agli alunni "normali" e che per tale finalità prendeva nome di Pedagogia Speciale, o Differenziale, o Emendativa, o, per finire, Ortopedagogia.
2) NORMALIZZARE LO SVILUPPO PER ACCEDERE ALL’APPRENDIMENTO
Il metodo di insegnamento-trattamento (uso questo termine per mettere in rilievo l'ottica medicalizzante, anche se si tratta propriamente di una didattica di tipo scolastico delle abilità elementari) che M. Montessori ha impostato tenendo presente l'opera di E. Séguin, e che poi è stata limata e perfezionata da educatori di valore come G. Mangili, M. T. Rovigatti, J. Cervellati, A. Spinelli e da ultimi A. Benfenati e G. Calò, è costituito da un'analitica frammentazione del procedimento didattico utilizzato nell'insegnamento normale, perché "mentre nel fanciullo normale esiste già una disposizione a compiere spontaneamente ... certi atti... in virtù della sua propria costituzione anatomica, nel minorato, per causa delle sue condizioni... deficitarie, tale spinta manca". E dalla "constatazione dell'esistenza di un ordinato concatenamento degli atti" per cui "il soggetto minorato, infatti, non può compiere un certo atto, se prima non ha compiuto certi altri atti", nasce un metodo "sicché dal movimento più semplice di partenza si passi a quello via via più complesso, dall'idea elementare si giunga all'associazione con altre idee, dai vari legami parziali si arrivi alla coordinazione nell'ambito di un'associazione generale". Così "la finalità del recupero" è di giungere alla normalizzazione degli atti" (cfr. bib. 2).
Una normalizzazione degli atti, dunque, è la condizione per gli apprendimento scolastici, come dice chiaramente J. Cervellati quando afferma "l'insegnamento delle discipline scolastiche, compreso l'avviamento alla lettura e alla scrittura, sono la conseguenza della nostra opera educativa, non la premessa" (cfr. bib. 3). In questo senso l'apprendimento è conseguenza di una correzione dello sviluppo inadeguato delle funzioni, correzione che viene indotta completamente dall'insegnamento speciale o differenziale solo nel caso di anormali falsi, perché nel caso di anormali veri lo sviluppo alterato può venir modificato solo parzialmente, giacché in definitiva l'apprendimento è sempre in coda allo sviluppo.
Nessun esempio migliore degli effetti perversi della "normalizzazione" si può trovare nella storia della nostra scuola di quello che si è realizzato con la scuola media. Con la nascita nel ’62 della nuova scuola media, si ribadisce l'istituzione, accanto alle classi normali, di classi differenziali per "soggetti le cui deficienze di rendimento o irregolarità di comportamento si possono ricondurre ad infermità e disturbi fisici o psichici di entità tale da non precludere in futuro la possibilità di un eventuale reinserimento in classi a ordinamento normale" (dalla C.M. 377 del 28/9/65) e di classi di aggiornamento destinate a soggetti che "per cause non ascrivibili a carenze mentali o a turbe caratteriali, ma a fattori ambientali comunque estranei alla loro personalità, appaiono bisognevoli di particolari cure" (dalla C.M. 373 del 25/9/65) cioè i soggetti che non appaiono in grado di affrontare la scuola in modo normale (svantaggiati, diremmo oggi). Per accedere alle classi differenziali gli alunni venivano avviati dai loro docenti al giudizio di una commissione medico - pedagogica (due medici e un pedagogista). Il tutto in una situazione contestualizzaata come già detto dalle scuole speciali e dagli istituti con internato che, raccogliendo tutti gli altri soggetti disabili, li sottraevano alla socializzazione scolastica. All’inizio degli anni ‘70, quando si aprì il discorso dell’inserimento nelle classi normali, il Ministero fece il punto sull’istituzione delle classi speciali e scoprì che a fronte della proliferazione di quelle differenziali, poche, anzi, troppo poche erano quelle di aggiornamento.
Chi aveva problemi nella percorrenza scolastica, infatti, veniva subito etichettato dai docenti come un handicappato e avviato alla commissione medico - pedagogica che, per parte sua, aveva facilmente riconosciuto la carente dotazione intellettiva. Così a fronte di una indicazione epidemiologica che faceva riferimento, in tutte le Nazioni evolute, alla percentuale circa del 3 % di soggetti disabili presenti nella popolazione, per la scuola media italiana si aveva un 20 o 25 % di soggetti che i docenti consideravano e facevano riconoscere come handicappati. In tal senso i docenti erano indotti ad agire con scelte educative di fondo, per effetto della propria incapacità professionale e per la mancanza di altri strumenti educativi e metodologico-didattici finalizzati all’individualizzazione dell’insegnamento su bisogni differenziati di apprendimento, introdotti da una riforma fondamentale di programmi e ordinamenti, avviata senza alcuna formazione in servizio del personale. Di fronte ad una situazione che sortiva l'effetto di far dichiarare alunni anormali anche quelli, e sono la gran parte, solo svantaggiati socioculturali, il Ministero apre la sperimentazione della scuola integrata a tempo pieno, bloccando l'istituzione di nuove classi differenziali con la C.M. 257/71. La commissione Falcucci infine elabora un documento in cui si mette in luce il senso dell'integrazione degli handicappati nelle classi normali e, due anni dopo, la legge 517/77 sancisce normativamente tale diritto.
3) NUOVE INTERPRETAZIONI DELLA CAUSA DELLA MALATTIA MENTALE
Ovviamente nel frattempo tante cose sono cambiate in campo educativo dagli orientamenti positivista di fine secolo e neoidealista del primo dopoguerra. In particolare i riferimenti medico-scientifici sul problema delle cause della malattia mentale hanno visto svilupparsi dalla Psicoanalisi freudiana e affiancarsi al tradizionale orientamento organicistico, figlio di un’impostazione meccanicista che nella storia della medicina aveva definitivamente prevalso nel corso dell’Ottocento e che aveva coniato il termine di "Neuropsichiatria" per significare come l'alterazione mentale fosse causata dalla malattia del sistema nervoso, un nuovo orientamento psicodinamico. E con tale prospettiva si può proporre una nuova visione per la quale l'alterazione mentale è causata da un conflitto psicosessuale intervenuto ad alterare il normale sviluppo. Ma non basta; successivamente, infatti, dagli studi delle Scienze psicosociali e antropologico-culturali nasce un terzo orientamento, chiamato appunto psicosociale, perché rinviene la causa della malattia mentale nei fattori d'integrazione sociale che agiscono sull'individuo imponendogli un ruolo nella famiglia, nella scuola e nella comunità più ampia. Mentre al primo orientamento corrisponde, dunque, un'eziologia organogenetica, i due successivi fanno, invece, riferimento ad eziologie psicogenetiche, e precisamente a fattori prevalentemente interni l'uno, a fattori prevalentemente esterni l'altro. La medesima distinzione di solito viene richiamata nel gergo specifico anche con la contrapposizione tra i termini "Organico", riferito al primo in quanto situazione dipendente da un deficit nella struttura anatomo-fisiologica del corpo, e "Funzionale" per gli altri due che presentano delle alterazioni nel funzionamento in presenza però di un substrato organico normale o almeno indenne da patologie.
E' da queste basi che si sviluppa la concezione di un processo di formazione dell'handicap, proposta per le diverse ottiche eziologiche nelle schede A e B rielaborando le indicazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, con netta distinzione e identificazione dei due differenti livelli della catena causale patogenetica: quello della disabilità, l’uno, e l'altro, dell'handicap. La formazione dell'handicap in tal senso è segno di un processo sociale di riconoscimento della disabilità, ma non è sempre ad essa necessariamente conseguente ed anzi conosce forti differenziazioni a seconda delle culture e dei tempi. Da tutte queste considerazioni, dunque, nasce l'idea, nei primi anni '70, che la migliore prevenzione terziaria (cfr. bib. 4), cioè la prevenzione a quello che nelle schede è stato chiamato il processo di formazione di un "handicap dell'handicap", consista nell'inserimento dei disabili nella comunità e particolarmente in quella scolastica e in quella lavorativa, per la determinazione di un riconoscimento che vada indenne da segni attorno a cui possa crearsi il processo di emarginazione sociale cioè di costruzione dell’handicap.
Scheda A: DETERMINAZIONE DELL'HANDICAP SECONDO L'O. M. S. (MODIFICATO) NELLA PROSPETTIVA ORGANOGENETICA
Qualcosa di anomalo si verifica nell'individuo:
1) EVENTO MORBOSO (es. encefalite)
dal livello organico una catena di situazioni causali dà origine ad una modificazione nella struttura del corpo; e da questa si origina una carenza nella dotazione dell'individuo:
2) MENOMAZIONE (es. atrofia cerebrale)
che si realizza anche a livello psicofisico, giacché la modificazione o il mancato sviluppo strutturale determina a sua volta una limitazione o perdita di capacità:
3) MANCANZA DI ABILITA’ (es. dislessia)
a questo punto si è giunti a livello psicosociale Questa disabilità può ostacolare le richieste sociali o della realtà culturale in cui si trova a vivere dando così luogo a:
4) HANDICAP (es. perdere il treno perché non si sa leggere l'orario)
livello sociale
Se poi l'individuo si rende conto della propria diversità, facilmente adatta il proprio ruolo e la propria posizione a quanto gli altri (famiglia, scuola, circondario, sanità) intendono a lui adeguato:
5) HANDICAP DELL'HANDICAP (es. rinunciare per sempre a prendere un treno)
livello psichico
A questa catena di situazioni causali si può aggiungere che in talune circostanze può essere vissuta come menomazione una carenza nel repertorio normale dovuta non alla dotazione organica deficitaria dell’individuo, ma alla sua diversa dotazione culturale (linguaggio, conoscenze, strumentazioni e strategie, motivazioni e valori ecc.), in tal modo
3') QUALSIVOGLIA MANCANZA DI ABILITA’ (es. codice linguistico ristretto)
livello psicosociale
è qualsiasi limitazione, anche da carenza esperienziale (svantaggio) della dotazione normale.
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Scheda B: DETERMINAZIONE DELL’HANDICAP NELLA PROSPETTIVA PSICOGENETICA
Lo sviluppo emotivo-affettivo non si realizza in modo normale, si determina nell'inconscio un
1) CONFLITTO PSICHICO (es. disturbato rapporto con la madre)
a livello psichico così una catena di situazioni causali dà origine ad una modificazione nell'organizzazione psichica da cui si origina un comportamento inadeguato:
2) DISTURBO PSICOSOMATICO (es. emicrania)
livello psicofisico
il disturbo crea delle condizioni di limitatezza e perdita di capacità nel comportamento atteso
3) MANCANZA DI ABILITA’ (es. rendimento scolastico inadeguato)
a livello psicosociale questa disabilità può ostacolare le richieste sociali o della realtà culturale in cui si trova a vivere dando così luogo a:
4) HANDICAP (es. ripetenza scolastica)
livello sociale
Se poi il ragazzo si rende conto della propria diversità, facilmente adatta il proprio ruolo e la propria posizione a quanto gli altri (famiglia, scuola, circondario, sanità) intendono a lui adeguato, determinando:
5) HANDICAP DELL'HANDICAP (es. rinunciare a continuare a studiare)
livello psichico
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Dalle nuove interpretazioni della causa della malattia mentale derivano nuove impostazioni, anche legislative, del problema concernente l’educazione degli handicappati. Il complesso, poi, delle norme che regolano direttamente l'integrazione o influiscono sulla medesima (per una rassegna storica della materia cfr. bib.5) si può strutturare tenendo presenti quattro settori: 1) quello che riguarda le dichiarazioni di Enti ed Organismi internazionali sui diritti dei minori e l'assistenza alle persone handicappate; 2) quello relativo alle indicazioni espresse nella Costituzione della Repubblica e alle leggi ordinarie attinenti alle medesime problematiche e ai compiti della scuola; 3) quello che comprende tutti i regolamenti scolastici sull'organizzazione, sui programmi d'insegnamento, sui criteri d'esame e sulla formazione e l'utilizzo del docente di sostegno; 4) quello definitivo dalle leggi e dai regolamenti regionali sull'assistenza e l'ìstruzione professionale, comprendente anche l'eventuale intesa fra Regione, Ulss, Sovrintendenza scolastica e Provveditorati per la definizione dei Profili Dinamici.
Guardando indietro al cammino fatto nell’integrazione scolastica dell’alunno in situazione di handicap, si può in ogni caso schematicamente fare riferimento a tre periodi di sviluppo della problematica nella coscienza degli addetti ai lavori nella scuola e un classico indicatore di questo sviluppo è proprio costituito dalla normativa scolastica: il primo periodo corrisponde agli anni ‘70: è la fase dell’inserimento (L. 118/71, Dpr. 970/75 e L. 517/77), con tutte le profonde incertezze legate all’esordio, ma anche con tutte quelle intuizioni che le sperimentazioni realizzate nelle scuole integrate a tempo pieno avevano sostanziato di una forte tensione a valori e finalità pedagogiche.
Il secondo è quello degli anni ‘80: caratterizzato (L. 270/82, L. 326/84, Ccmm. 258/83, 250/85, 1/88 e 262/88 più la Sentenza della C. C. 215/87) dall’elaborazione più matura e dalla diffusione più ampia di strumenti metodologici e procedure didattiche per l’integrazione scolastica all’interno di un compiuto sistema di accoglienza. Il terzo tempo è quello che stiamo vivendo negli anni’90: è quello dell’attuazione (L. quadro 104/92, Dpr. 24/2/94, Dm. 16/11/92 e Cm. 339/92 ecc.) dei diritti, tutti quei diritti dichiarati nella legge quadro, per la qualità complessiva dell’integrazione sociale (e non più solo o prevalentemente scolastica).
4) DALLA RIABILITAZIONE (FUNZIONALE) ALL’EDUCAZIONE
Ma cos’è successo di tale importanza da poter produrre tutto questo movimento legislativo e culturale? Come abbiamo visto nel I paragrafo, l'educazione degli alunni portatori di handicap si è realizzata da principio solo grazie alla guida scientifico-culturale e alla conseguente concezione del trattamento (sanitario) della Medicina. E per taluni versi questa si presta particolarmente a tale compito, giacché bisogna considerare come la pratica medica si adempia in quattro diversi settori operativi, quello della prevenzione, quello della diagnosi, quello della terapia e quello della riabilitazione. Tutti e quattro possono venir espressi in termini di prevenzione: primaria, o più semplicemente prevenzione soltanto, è quell'intervento che tende ad eliminare i fattori di rischio che contribuiscono a determinare l'insorgere di una malattia; secondaria è la diagnosi precoce della malattia e la sua cura efficace fino alla guarigione completa; terziaria è l'intervento su chi è si guarito dalla malattia, ma ne continua a portare le conseguenze che gli impediscono di vivere come prima della medesima.
La riabilitazione o prevenzione terziaria ha la finalità di risolvere le conseguenze della malattia e reinserire il soggetto nella società al pari di tutti gli altri, pertanto solo parzialmente si realizza in ambiente sanitario, per quanto ancora rimane legato alla terapia, prevedendo tutto un settore sociale d'iniziativa che si realizza anche all'interno di altre istituzioni, in particolare quelle educative e lavorative. Anche se in un campo come quello dell'handicap (e poi in particolare in quello relativo all'handicap psichico), dove l'aspetto sociale e culturale è determinante, come abbiamo visto, più che non quello della minorazione funzionale o della disabilità vera e propria, una netta distinzione tra terapia e riabilitazione sanitaria da un lato e terapia e riabilitazione sociale dall'altro non sussiste. Per far presente il riferimento alle situazioni terapeutico-riabilitative attivate dal servizio sanitario nazionale, ho desunto da G. Bollea (cfr. bib.6) la scheda C dove si cerca di sintetizzare anche le coordinate su cui operano due diverse impostazioni della Psicoterapia, chiamate "di sostegno" e "del profondo", con la rispettiva elencazione per ciascuna delle tecniche più diffuse e conosciute.
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Scheda C: PSICOTERAPIA DI SOSTEGNO E DEL PROFONDO
PSICOTERAPIA: Si basa sul rapporto tra giovane paziente, terapista e adulti di riferimento o gruppo dei pari. Quando il rapporto verbale è limitato o impedito si usano altri mezzi espressivi gioco, disegno e pittura ... )
DI SOSTEGNO: Quando il terapeuta, pur favorendo il bisogno del paziente di comunicare la sua sofferenza a qualcuno che la comprenda, non entra nell'analisi dei meccanismi profondi dell'inconscio, mantenendo il suo intervento a livello del conscio e facilitando il contatto tra il modo personale del paziente e la realtà rappresentata dal suo corpo malato, dalla conflittualità con la famiglia, dal ruolo sociale ... (Psicodramma di Moreno, Psicoterapia della famiglia, Analisi istituzionale, Psicoterapia non direttiva o centrata sul cliente di Rogers, Terapia occupazionale, Gruppo di analisi al I' livello ... )
DEL PROFONDO: Si basa sul rapporto emotivo tra paziente e terapeuta per permettere che i desideri inconsci si attualizzino ripetendo prototipi infantili vissuti con forte senso di attualità e su questi si possa esplicare la "spiegazione" del terapeuta. (Psicoanalisi freudiana, Analisi esistenziale, Psicoterapia di gruppo, Tecniche di gioco)
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Tenendo sempre presente quanto già detto all'inizio circa la differenza tra disabilità e handicap, si può affermare che generalmente le tecniche di riabilitazione sono destinate più a ridurre l'entità delle disabilità che ad aumentare le capacità residue, e per far ciò impostano l'intervento sulla "normalizzazione degli atti", o ripetendo il percorso dello sviluppo delle funzioni, o vicariando le capacità funzionari impedite, o cancellando comportamenti per imporne altri. E anche l'educazione scolastica, in carenza di un proprio tessuto culturale psicopedagogico, si è in passato (ma anche tuttora) riferita abitualmente a queste tecniche riabilitative, come indica chiaramente la scheda D che descrive alcuni dei trattamenti tra i più conosciuti e utilizzati negli anni ’70 e ’80 sia direttamente nella scuola, che anche nella formazione dei docenti, relativi all'intervento psicomotorio, e quindi di particolare interesse per il docente di Educazione Motoria e Fisica.
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Scheda D: CONCEZIONI SOTTESE A DIVERSI TRATTAMENTI PSICOMOTORI PER IL RECUPERO DEGLI HANDICAPPATI
3) L'intervento è finalizzato alla MODIFICAZIONE del COMPORTAMENTO, con FISSAZIONE dei comportamenti adeguati e CANCELLAZIONE di quelli non adeguati secondo una scala di OBIETTIVI PRATICI della vita quotidiana, personalizzati sui bisogni del singolo soggetto. Più che al sintomo o alla relazionalità, considerati pur sempre aspetti parziali dell'essere umano, l'intervento è rivolto analiticamente al comportamento del soggetto nell'ambito di una concezione realistica e pragmatica che aderisce ad alcune tecniche di condizionamento tipiche del Neocomportamentismo (Skinneriano). Es. Trattamento Kozloff per cerebrolesi gravi (cfr. bib. 10). Implica tra l'altro l'uso di premi e punizioni, perciò non è facilmente applicabile in ambito scolastico se non nella versione della "Token economy".
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Ma è proprio questo il tipo d'intervento che si deve realizzare nella scuola? Personalmente non lo credo, sono invece convinto che l'applicazione di un trattamento riabilitativo (o anche rieducativo che può significare la medesima cosa) nell'istituzione scolastica possa avvenire solo a carico del personale sanitario che, nel rispetto della normativa vigente, è tenuto a rispondere a proprie formule deontologiche ed a perseguire propri obiettivi (cfr. bib. 11 e tutta la prospettiva del PEI integrato, così come espresso dalla Legge Quadro e dall’Atto d’indirizzo alla Sanità in materia di alunni portatori di handicap), mentre il personale scolastico deve, invece, realizzare un'iniziativa educativa all'interno di quelle regole pedagogiche che presiedono a qualunque atto educativo. Non va sottaciuta la grande differenza che può sussistere tra questi due tipi di intervento, anche se per altri versi possono sussistere ampi scambi nella elaborazione teorica e nella formulazione tecnica che tuttavia devono, poi, essere piegate a diverse logiche quando vengano utilizzate rispettivamente nell'altro campo. In particolare le elaborazioni scientifiche che sono sviluppate in ambito psicoterapeutico hanno costituito spesso l’unico riferimento alle elaborazioni pedagogico-didattiche, tanto che è solo nel confronto con queste che la prassi scolastica è evoluta, ma ciò non significa che l’appiattimento pedissequo sull’assimilazione riproduttiva di tali tecniche da parte della scuola non manifesti fondamentali carenze in ordine alle finalità proprie di questa istituzione. Purtroppo l’esordio delle scuole universitarie di specializzazione per i docenti è ancora di là da venire, nonostante che ne parlasse già la Legge delega del ’73. In tal senso il confronto pedagogico e metodologico fra intervento riabilitativo e intervento educativo è del tutto necessario e imprescindibile anche nello scenario disegnato dalle nuove tecniche.
5) L’APPRENDIMENTO (MEDIATO) IN TESTA ALLO SVILUPPO (FUNZIONALE)
In realtà la scuola è esperienza di vita e nel corso di questa esperienza quotidiana le funzioni cognitive (della percezione, della motricità, della comprensione, della conoscenza, della comunicazione, della memoria, dell'intuizione, della creatività ecc.) si sviluppano nella produzione scolastica in connessione con quelle non cognitive (emotivo-affettive, espressivo-relazionali e sociali) nel vivo del rapporto interattivo tra le persone, solo che si lasci che questa interazione avvenga e che abbiano luogo le motivazioni all'agire relazionale e comunicativo. In questo senso si può aprire, con l'appropriato comportamento insegnante, una spirale di relazione e comunicazione che diventano di volta in volta causa e obiettivo dell'agire e conciò stesso dell'apprendimento e dello sviluppo.
Non sussiste alcuna necessità di una normalizzazione preventiva degli atti prima del loro utilizzo nell'apprendimento, ma gli atti si possono normalizzare solo esplicandosi in un apprendimento già integrato ed anche complesso, il che non vuol dire difficoltoso, ma globale, anche nel compito più facile da affrontare. Ciò costituisce proprio tutto l'opposto dell'apprendimento elementarizzato tipico della Pedagogia speciale o della Riabilitazione. E quando l'individuo non ce la fa, subentra l'apprendimento mediato dal gruppo che sostiene e porta avanti quello individuale fino ad entrare in quella che è stata chiamata l'area potenziale dello sviluppo dell'individuo. E ciò accade non solo per l'alunno portatore di handicap, ma per ciascun alunno, abbattendo una volta per tutte gli steccati che distinguevano la didattica per l’apprendimento nei "normali" e la didattica differenziale per i "disadatti alla scuola".
Anche questo è dunque un concetto della Pedagogia dell'integrazione totalmente diverso da quelli espressi dalla Pedagogia speciale e dei vari Trattamenti riabilitativi, nel senso che mentre questi ultimi pongono l'apprendimento in coda allo sviluppo, e per di più considerano lo sviluppo come maturazione delle strutture organiche, ponendo l'individuo in posizione del tutto succube da un lato all'ereditarietà biologica, e dall'altro all'influsso dell'ambiente; la prima, invece, pone l'apprendimento in testa allo sviluppo e concepisce questo come il risultato, tra le tante forze che intervengono, anche dell'iniziativa del soggetto per partecipare alla vita sociale della sua comunità, sia sul piano della relazione con gli altri, che su di quello della produzione in collaborazione con gli altri (e in tal senso intervengono sia in dimensione cognitiva e relazionale, ma soprattutto in quella metacognitiva). L'apprendimento (socializzato e collaborativo) diventa così lo strumento principale per una partecipazione sempre ad un livello qualitativamente più alto (cfr. bib. 12 e 13) e in tal senso si pone come premessa del vero sviluppo dell’individuo: l’integrazione dell’apprendimento (sociale) diventa la premessa dello sviluppo individuale, cioè si ribalta così completamente la concezione della normalizzazione e del trattamento riabilitativo.
Un altro elemento di notevole stacco con la concezione di una Pedagogia speciale sta nella tendenza a far scomparire la diversità dell'handicappato, o quanto meno a non evidenziarla. Ciò paradossalmente può accadere solo quando si sia capaci di considerare ciascuno normale, e non per negare la differente dotazione personale, ma perché deve diventare normale che ciascuno possa partecipare all'esperienza scolastica al proprio livello di capacità senza essere discriminato ed emarginato. La scuola deve offrire gli strumenti per realizzare lo sviluppo massimo possibile di ciascuno e lo sviluppo non può realizzarsi senza questa partecipazione individuale all'esperienza di vita che si realizza nell'apprendimento, ma questo apprendimento non deve divenire l'occasione perché uno possa venir separato dagli altri che hanno differenti capacità. In tal senso il docente e la sua professionalità diventano i mezzi principali per realizzare la partecipazione di ciascun alunno e pertanto anche di quello portatore di handicap.
L'insegnante, conseguentemente, deve essere in grado di servirsi di un metodo di insegnamento individualizzato e di materiali che possano permettere la partecipazione a diversi livelli operativi; deve, per stimolare la partecipazione, poter utilizzare delle strategie didattiche basate sulla ludificazione e animazione della lezione. Deve, infine, dopo aver programmato e strutturato la materia, essere in grado, nel contempo, di seguire il programma suggerito dall'agire degli alunni (cfr. il concetto di programma personale del bambino in bib. 13) riportandolo senza forzature a quello prefissato dalla sua programmazione. Quando poi le caratteristiche di differenziazione del processo didattico per l’alunno in situazione di handicap non consentono un approccio interno (di individualizzazione) alla classe intera, si tratta allora di lavorare nel gruppo protetto, gruppo di media consistenza (da sette a tredici alunni circa), o piccolo gruppo (da tre a sei componenti) appositamente predisposto per estrapolazione dalla classe o dalle classi parallele, al fine di inserire in situazione di apprendimento l'alunno portatore di handicap medio o grave con un progetto educativo individualizzato, con lo scopo cioè di toccare, tramite l'apprendimento provocato dall'interazione di gruppo, l'area dello sviluppo potenziale dell'alunno handicappato; mentre per tutti gli altri componenti l'esperienza di questo lavoro può collocarsi a diversi livelli di funzionalità, fino a rimane, comunque, almeno omento di socialità e gioco, cioè di interazione ludica, aperta e motivante alla ricerca e all'invenzione di significati a qualunque operatività delle dimensioni cognitiva e non cognitiva ci si voglia porre.
L'ultimo aspetto che mi preme di evidenziare è che, dopo aver utilizzato materiali e contenuti didattici flessibili che abbiano dato modo a ciascuno di esprimersi e produrre con l'azione ad un livello consono alle proprie capacità e nella collettività dell’agire educativo, o dopo aver forzato lo sviluppo con un apprendimento mediato dal gruppo, e comunque sempre, anche dopo prassie spontanee e totalmente libere, deve intervenire un momento di passaggio dal vissuto al rappresentato, per sviluppare progressivamente sul piano cognitivo prima e metacognitivo poi, per quanto possibile e pedagogicamente adeguato, quelle procedure neuro e psicomotorie che si sono in precedenza prodotte spontaneamente o sotto la guida esterna nell’affrontare i compiti collaborativi. L’impegno costante del passaggio dal vissuto al rappresentato si può compiere col linguaggio verbale, sia orale che scritto, tuttavia si realizza meglio utilizzando anche tutti i sistemi di segni non verbali (prassici, iconici e sonoro-musicali e multimediali).
6) PSICOMOTRICITA’ E PEDAGOGIA
E dal momento che siamo venuti a cadere nel discorso, vale la pena di chiarire subito cos'è la psicomotricità. La PSICOMOTRICITA’ nasce nel pensiero psicologico come ipotesi e concetto da verificare nella soluzione del rapporto mente - corpo, in opposizione al "Parallelismo psicofisico" che aveva costituito il fondamento antropologico nel lavoro sperimentale realizzato dai primi psicofisiologi nella seconda metà dell'Ottocento. Mentre quest'ultimo concetto vuol significare che gli eventi psichici e quelli fisici costituiscono due serie parallele di eventi che non agiscono gli uni sugli altri, con "Psicomotricità" si intende esattamente il contrario, cioè il loro interagire. In altre parole, mentre col primo termine non si ammette una "causalità" tra mente e corpo (mente o anima o pensiero o spirito o coscienza o cultura o sovrastruttura o sistema probabilistico e corpo come carne o estensione o materia o organismo o natura o struttura o sistema deterministico), con la seconda la si vuole proprio ammettere, o meglio, affermare tale interazione di causalità. Anche se rimane poi da definire la direzione di questa causalità, ed è anzi proprio questa indeterminatezza a provocare oggi forme diverse di intenderla e praticarla (3 sono le soluzioni: o dal corpo alla mente come nel Materialismo, o dalla mente al corpo come nell’Idealismo, o reciprocamente come nell’Interazionismo popperiano). Alla fine del secolo scorso e all'inizio del presente le scuole di Psicologia (Psicofisica; Psicologia della forma; Primo Comportamentismo e Riflessologia russa) anche se con grandi diversità epistemologiche operano tutte nell'ambito del "Parallelismo", giacché solo in questa direzione possono salvaguardare la propria ricerca scientifica dalle interpretazioni ideologizzanti del pensiero religioso e di certo pensiero filosofico che pervadono la cultura con la loro visione finalistica del reale. Solo la Riflessologia russa ovviamente, ne va indenne, dal momento che si riferisce esplicitamente al modello materialista (la causalità va dal corpo alla mente, anzi la mente è un nome all’organizzazione del corpo). Parimenti anche le scienze mediche più pertinenti (Neurologia e Psichiatria) sulla spinta positivista ammettono solo l'origine organica della malattia mentale, per effetto dell'orientamento Organicista già esaminato in precedenza.
Ma ben presto anche in Filosofia e Pedagogia si vanno affermando nuovi modelli interpretativi che collegano mente e corpo: inizia J. Dewey, al passaggio del secolo, con la sua critica dell'arco riflesso come modello totalizzante del comportamento e, avviando il Funzionalismo, a sviluppare il concetto di "transazione" tra i due piani del comportamento unificati sotto il processo dell'esperienza. Poi viene S. Freud a svelare il determiniamo dell'inconscio nella vita dell'uomo e intanto si va realizzando un complesso di studi e ricerche, poi unificato sotto il nome di "Psicologia cognitiva", che vede Autori di differente impostazione, metodologia e campo d'indagine affrontare, pur secondo una dimensione strettamente scientifica dell’indagine e dell’esperimento, il problema della conoscenza e dei rapporti tra le varie funzioni (percezione, motricità, intelligenza, linguaggio, emozione ed affettività). Del resto le stesse Filosofie del Novecento con nuove categorie hanno impostato il problema mente/corpo in senso interazionistico, giungendo ad orientare in tal senso anche la Pedagogia e l’educazione.
Facili riferimenti per questa nuova visione pedagogica sono: per il piano ontologico la Fenomenologia di Merleau-Ponty (giacché il suo concetto fenomenologico di corpo può conciliare ed unificare il "Corpo per sé" e il "Corpo in sé" che per molti versi erano stati in precedenza distinti ancora una volta dall'Esistenzialismo sartriano e dalla Fenomenologia husserliana ed heideggeriana al fine di svalutare il concetto di corpo a favore del corpo percepito e vissuto, cfr. bib. 14, 15 e 16); per il piano logico lo Strumentalismo deweyano (l'intelligenza nasce nel corso della concreta esperienza come strumento operativo, cfr. bib. 17, 18 e 19); per il piano epistemologico l'Epistemologia genetica piagetiana (che dimostra la filiazione dell'intelligenza formale interproposizionale da quella sensomotoria, cfr. bib. 20, 21, 22 e 23); la Psicobiologia walloniana (ha messo definitivamente in luce l'apporto delle funzioni organiche allo sviluppo delle funzioni psichiche, cfr. bib. 24, 25, 26 e 27); la Psicologia pedagogica di Vygotskij (mostra come lo sviluppo intellettuale in generale e del linguaggio in particolare sia il risultato di un processo interattivo di natura sociale, cfr. bib. 28 e 29); e per finire il Cognitivismo strutturalista di Bruner (ha indagato il ruolo della motricità nello sviluppo della rappresentazione, cfr. bib. 30, 31 e 32). Più o meno, a seconda delle personali propensioni dei vari Autori, da queste fonti e dagli sviluppi terapeutici della Psicoanalisi la psicomotricità francese degli anni ’60 ha ricevuto un forte impulso che ne ha fatto proliferare le varie tecniche. Sia nel settore della terapia che in quello dell'educazione, cfr. per il primo ambito bib. 33, 34, 35 e 36, per il secondo bib. 37, 38, 39 e 40.
Ai tempi odierni nessuno può più mettere in dubbio il rapporto mente - corpo, così come ormai molte scienze lo assumono come variabile assegnata (non in discussione) per le loro ricerche, dopoché è stato affrontato il primo problema da definire su questa strada e cioè quello dei rapporti tra la dimensione biochimica e quella psicofisica. Può sembrare, infatti, da come sono schematizzati i processi evolutivi nelle ricerche delle diverse scienze, che crescita fisica e sviluppo mentale siano totalmente distinti, ma non è così, perché sono distinti soltanto finché le scienze che li studiano sono distinte; quando nasce una scienza che li unifica, come la Psicobiologia, si possono cogliere delle spiegazioni che sono trasversali ai due campi epistemici e proprio così, dopo la "depressione anaclitica" descritta da R. Spitz (bib. 41), veniamo a sapere dagli Auxologi che esistono fenomeni di "nanismo da deprivazione affettiva", a ribadire come le condizioni psicologiche dello sviluppo influiscono, e notevolmente, anche sui parametri costituzionali della crescita corporea.
Un secondo problema che è stato definito sempre su questa strada è poi relativo ai rapporti all'interno del processo di sviluppo psicofisico tra aspetti psichici e mentali da un lato (la Cultura o la Mente o l'Apprendimento) e aspetti fisici e corporei dall'altro (la Natura o il Corpo o la Maturazione). Bene! Con M. Merleau-Ponty (bib. 42) possiamo cogliere nel "fenomeno dell'arto fantasma" l'indizio chiaro di come sussista un circuito di causalità diretta tra dimensione della coscienza e dimensione della corporeità unificate nel concetto fenomenologico-esperienziale del vissuto. E la possibilità anche di invertire il senso della causalità per pervenire ad una superiore reciprocità è definita nella teoria dei "tre mondi" da K. R. Popper (bib. 43). Tale circuito, dunque, implica ormai un improrogabile riferimento al soggetto dello sviluppo come Unità psicofisica e definisce come parziali e fuorvianti tutte le teorizzazioni pedagogiche e le descrizioni scientifiche di un tale processo che non si definiscano a partire da tale unità.
Tutta l’elaborazione didattica della Psicomotricità può trovare spazio nell’integrazione, quando sia stata metabolizzata alle finalità e alle metodologie educative. In particolare risulta necessario, pur partendo dalla Relazione, non finalizzare tutto il percorso ad essa, considerata sì come una dimensione imprescindibile dell’Educazione, ma non l’unica e, con l’evolvere positivo della Comunicazione educativa e del livello d’apprendimento, sempre più relegata sullo sfondo.
Della Relazione si interessano differenti scienze e discipline di studio, dalla Linguistica e dalla Sociologia alla Psicologia sociale e alla Psicoanalisi. In particolare due sono gli apporti che qui si intendono tenere presenti: quello psicoanalitico, per cui la R. è uno dei due bisogni fondamentali dell’individuo (l’altro è quello dei bisogni biologici) che si struttura progressivamente a partire dal rapporto primario con la madre e successivamente col padre (gli oggetti principali delle relazioni infantili), ma poi nell’arco della vita continua nelle interazioni secondarie scolastiche e lavorative da un lato e in quelle emozionali e sessuali caratteristiche della nuova famiglia dall’altro, anche se ripetendo le modalità fondamentali già vissute nei rapporti primari. L’importanza della R. per l’Educazione è notevole perché si è osservato il fatto che nel rapporto primario con la madre i bisogni biologici si soddisfano insieme a quelli relazionali (psicologici) e, se questi ultimi non vengono soddisfatti per determinati motivi (come nel bambino istituzionalizzato di Spitz), si produce un arresto di sviluppo (psicofisico, emozionale e cognitivo); da tutto ciò Winnicott inferisce che la R. sostiene lo sviluppo psicologico, producendo l’Apprendimento, prima di tipo psicobiologico e poi di tipo anche scolastico.
Da questa posizione iniziale, poi, altri Autori psicoterapeuti (Bion, Meltzer ecc.) portano a evoluzione ulteriore le ipotesi psicoanalitiche nella direzione estrema già espressa da M. Klein (cfr. bib. n. 44, determinando un complesso unitario di affermazioni cui riferire la propria azione:
1) il primato del mondo interno (il vissuto fantastico personale) su quello esterno (l’esperienza della realtà) in due dimensioni, e cioè a) sia che il mondo interno (fantasie, affetti, sentimenti, meccanismi di difesa ecc.) si struttura per effetto dei rapporti con gli oggetti interni (cioè come si sono organizzate nella mente le esperienze e i rapporti con gli oggetti reali; ovvero come si sono vissute anche prescindendo da una loro effettiva corrispondenza con la realtà); b) sia che la percezione del mondo esterno dipende dalla struttura di significati determinatasi nel mondo interno.
2) Anche se nel soggetto evoluto esiste una maggiore o minore consapevolezza della distinzione tra ciò che è reale nel mondo esterno (oggetto dell’esperienza) e ciò che è proiettato su di esso dal proprio mondo interno (oggetto della fantasia), nel soggetto in fase di sviluppo o in situazione di fluttuazione di identità ciò può non avvenire (fino al grave malato mentale dove non sussiste consapevolezza della distinzione).
3) Lo sviluppo della mente (della consapevolezza) può avvenire solo all’interno di una relazione affettivamente soddisfacente, perché il funzionamento cognitivo dipende dalle funzioni emotivo-affettivo-sociali (cfr. bib. n. 45).
Il secondo orientamento che ha particolare importanza per l’Educazione è quello espresso, a partire da l’Interazionismo simbolico e dalla Sociologia della conoscenza da un lato e dalla Teoria dell’Informazione dall’altro, dalla individuazione dei due livelli dell’Atto comunicativo, il primo costituito dal contenuto cognitivo (livello di contenuto) codificato nel messaggio linguistico dal parlante e decodificato nella comprensione del messaggio dall’interlocutore e il secondo dalla punteggiatura sulla relazione (livello di relazione) che lega i due dialoganti nella situazione di interazione, effettuata dalla Pragmatica della comunicazione umana (intendendo con tale nome indicare la disciplina che studia la comunicazione come azione sociale). In tale visione il livello di relazione classifica (contestualizza, significa) quello del contenuto, ponendosi così su una dimensione metacomunicativa. Da ricordare che la R. è espressa dalla Comunicazione non verbale, oltreché da quelle Verbale linguistica e non linguistica.
Due sono, almeno a questo punto di analisi, le implicazioni fondamentali di questa teoria: a) l’apprendimento della lingua, poiché il linguaggio si struttura in base alla funzione svolta nel contesto della comunicazione, può avvenire solo nella situazione di Relazione; b) la Relazione struttura il singolo atto comunicativo all’interno della sequenza di scambi e delle intenzionalità che connotano l’interazione tra due interlocutori, perciò l’analisi di tale atto non si può più ridurre ad un solo tempo (esecutivo), ma va costruita su tre tempi: 1) il primo consiste nell’elaborazione di un adattamento all’intenzione dell’interlocutore che effettua il parlante prima di parlare come risultato conclusivo di una transazione con le proprie attese; 2) il secondo è l’esecuzione, consequenziale a tale adattamento, dell’intervento comunicativo da parte del parlante; 3) il terzo è la ricerca del riconoscimento nell’espressione dell’interlocutore di esiti circa l’intenzione espressa dal parlante. E così il successivo atto ricomincia con la sequenza speculare da parte dell’interlocutore ora parlante e così via (cfr. bib. n. 46).
In conclusione si tratta di due differenti visioni, la prima evolve nello studio delle dinamiche affettivo-relazionali specificatamente infantili che si riattualizzano mediante i processi di apprendimento sviluppati nel corso della terapia; la seconda più presente alle prospettive di socializzazione culturale dell’educazione; tuttavia entrambe assegnano alla Relazione un’importanza fondamentale sia nello sviluppo generale della mente che nello sviluppo dell’interazione comunicativa e poi offrono degli utili modelli di riferimento all’intervento educativo, in specie quando dall’intervento sulla situazione dell’alunno il docente passi a considerare l’intervento sulla situazione d’insegnamento.
La Relazione, dunque, come abbiamo visto si esprime in diverse forme comunicazionali. Da ciò discende la necessità di fare riferimento a una Concezione generale della Comunicazione che non può non partire dal modello meccanicistico della Teoria dell’Istruzione e dai connessi concetti di Emittente, Ricevente, Canale, Segnale, Messaggio, Informazione, Codice, Rumore ecc.; all’interno di una tale visione poi è necessario tener presente sia la distinzione tra Espressione e Comunicazione che com’è costituito un Segno secondo il Triangolo semiotico, oltreché cominciare a declinare le diverse caratteristiche dei vari Sistemi di Segni (sensomotorio, iconico, gestuale, sonoro-musicale, verbale orale, verbale scritto, multimediale, multimediale informatico, multimediale informatico interattivo) alla luce di una Teoria del Segno (Semiotica) e del Significato (Semantica). Ma non basta, infatti è anche necessario ripensare tutto questo primo ampio sistema con la lente di un Approccio psicolinguistico alla Comunicazione che delimiti le sfere di Competenza ed Esecuzione (relazionale, comunicazionale, linguistica) definendo i Contesti sociali regolativi e gli usi conseguenti ai ruoli sociali (i Codici Sociolinguistici di Berstein), fino ad aprire l’Analisi della struttura linguistica nelle Funzioni linguistiche e nelle Operazioni mentali implicate ai differenti livelli delle Articolazioni della lingua, fonemica, morfosintattica e testuale (cfr. bib 47).
8) LA COMUNICAZIONE EDUCATIVA
In questa direzione, infatti, la Comunicazione Educativa è l’elemento che collega l’Apprendimento dell’alunno all’Insegnamento del docente come Farsi reciproco (l’insegnante apprende mentre insegna e l’alunno insegna mentre apprende). E proprio perché il processo comunicativo abbia successo e gli atti comunicativi possano strutturarsi secondo interazioni transazionali, la Comunicazione Educativa deve sostenersi su una Relazionalità favorevole sia tra docente e alunno che tra alunno e altri alunni (per non parlare di quella tra i docenti) e infatti la Relazione crea il sistema di reciprocità che permette il riconoscimento vicendevole e lo sviluppo del senso di appartenenza, contribuendo decisamente alla determinazione di un’atmosfera di Precomprensione e di Comune Interpretazione (Cfr. bib. n. 48).
Si tratta insomma del "clima della classe" (la classe intesa come contesto di relazioni). In questo senso il gruppo classe, infatti, ha una struttura che determina un certo tipo di interazione per il conseguimento di comuni obiettivi. La struttura è determinata dalle posizioni (caratteristiche personali come età, sesso, amicizie, capacità, interessi ecc.) e dai ruoli (comportamenti connessi alle singole posizioni, attesi dagli altri) dei singoli componenti ed è facilmente riconoscibile da come questi si trattano e si considerano vicendevolmente. La presenza di una forte asimmetria strutturale dovuta al docente, se può accentuare funzioni gerarchiche che organizzano l’azione del gruppo nel perseguimento più efficiente degli obiettivi, tuttavia può rendere la vivibilità interna abbastanza difficile contrastando eccessivamente la soddisfazione dei bisogni dei componenti, e ciò non è più compatibile con la finalità educativa stessa. Per tal motivo la ricerca sul clima della classe, dopo la Pragmatica della comunicazione umana e lo sviluppo della strategia del Rispecchiamento sviluppata da C. Rogers all’interno di quella più ampia impostazione chiamata "Terapia centrata sul cliente" (cfr. bib. n. 49), si è venuta configurando come indagine sulle forme (regole) più efficaci di comunicazione educativa (azione sociale) nel realizzare un’atmosfera relazionale favorevole all’acquisizione e alla rielaborazione delle nozioni da un lato, ma anche alla maturazione personale e sociale dall’altro.
Attualmente la ricerca sul clima della classe (cfr. bib. n.50) ha raggiunto un’articolazione profonda: da un lato si individuano condizioni personali del docente che influiscono sulla qualità del rapporto (fattori personali come motivazione, atteggiamenti di fondo, funzionalità psichica e capacità di controllo; fattori situazionali come quelli organizzativo-gestionali e, da ultima, la capacità di accurata lettura della situazione sociale degli allievi), poi sono definiti i principi che orientano il docente in una direzione proattiva (attivare, comprendere, sottolineare il positivo, ridimensionare e responsabilizzare) ed infine sono descritte le competenze interattive (qualità processuali di contatto, competenze di base e competenze complesse) di cui la professionalità docente deve venire sicuramente in possesso per dare sufficienti garanzie circa una "conduzione della classe" secondo un clima di promozione della persona.
In questo senso la Relazione esce dal contesto specifico che caratterizza talune tecniche riabilitative (in particolare dei soggetti autistici), per entrare a pieno titolo nel tessuto della problematica della Comunicazione educativa e nelle impostazioni metodologiche del rapporto didattico che da sempre connotano la professionalità del docente.
Biblio ed emerografia:
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