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Indice

1.     L’ermeneutica da dialettica a teoria generale dell’interpretazione (W. Dilthey)

2.     Comprensione esistenziale e ontologia linguistica (M. Heidegger e H.-G. Gadamer)

3.     Due vie ermeneutiche e fondazione di una grande ipotesi di sfondo (L. Pareyson)

4.     Il momento fenomenologico dell’esistere pedagogico (P. Bertolini)

5.     Il momento didattico delle forme simboliche nella pedagogia della cultura (L. Rosati)

6.     Bibliografia

 

 

1) L’ermeneutica da dialettica a teoria generale dell’interpretazione (W. Dilthey)

 

         In un precedente intervento avevamo già visto come il sorgere del problema pedagogico in G. Gentile si era presentato secondo due aspetti della realtà che consistono insieme nell’atto spirituale: due aspetti che non sono propriamente due facce della medesima realtà (in altre parole, insiti nell’oggetto), ma due diversi punti di vista da cui traguardarla (in altre parole, insiti nel soggetto), come i due occhi che danno la vista alla persona. Col primo occhio, infatti, si vede la realtà così com’è, vale a dire come un fatto (si tratta dell’occhio della scienza); col secondo, invece, si vede la realtà come dovrebbe essere, vale a dire come un atto (si tratta dell’occhio della filosofia) e per quanto ci si sforzi, non è possibile escludere uno di questi punti di vista. Si tratta, infatti, della doppia considerazione del reale che porta a due diversi significati: da un lato ci si chiede come si forma l’uomo, come si sviluppa lo spirito umano e quali sono le leggi della formazione umana; dall’altro lato ci si chiede come si deve formare l’uomo e qual è l’uomo che dobbiamo formare.

         In altre parole il problema dell’educazione è oggetto sia della psicologia, quale scienza dello sviluppo naturale dello spirito, che dell’etica, quale ricerca filosofica dei fini cui deve mirare tale sviluppo e proprio in tal senso, dunque, il pedagogista di fronte a questa divaricazione deve pur decidere quale strada intraprendere. A tale proposito, avevamo già detto[1] che ai tempi d’oggi queste prospettive diventano, la prima, la strada che sta percorrendo la pedagogia clinica, la seconda, la strada della pedagogia ermeneutica. Per la pedagogia clinica abbiamo già visto, seppur in sintesi, approccio e traccia del percorso[2]; rimane, perciò, da avvicinare l’approccio dell’altra via e il presente lavoro vuole risolvere (ad un livello introduttivo e divulgativo) proprio anche quest’aspetto. Nell’aprire lo sguardo sulla materia, però, è essenziale porre alcuni concetti di base e ripeterne i fondamenti essenziali con i primi Autori, giacché “L’Ermeneutica è la dottrina del comprendere. Tuttavia, chi vuole comprendere lo stesso comprendere farà bene a prestare attenzione alla molteplicità dei fenomeni rispetto a cui c’è qualcosa da comprendere”[3]. Questa affermazione vuole mettere sull’avviso che, poiché il comprendere come processo fondamentale della vita umana e la comprensione come prodotto di tale processo sono fenomeni ampiamente diffusi e frequenti, sussistono da un lato tanti livelli di comprensione che vanno da quelli spontanei, perché presenti alla quotidianità dei problemi che investono a vario titolo gli interessi personali (indagati nei ragazzi da J. Piaget, per fare un esempio classico), fino a quelli incorporati nelle rappresentazioni fondative delle società, delle culture e delle civiltà, mentre da un altro lato tanti settori della vita, dell’arte, del lavoro, della comunicazione, della politica, dell’educazione e della cultura nelle società (sia quella tradizionale che quelle di prima e di seconda modernità) richiedono l’esercizio di tale funzione nello sviluppo di una cittadinanza loro adeguata. Da ciò deriva tutta la sua cruciale importanza nell’analisi dell’educazione formale, non formale e informale sempre e ovunque.

         Qui però si fa particolarmente riferimento all’ermeneutica come teoria del significato, attuata in origine sia nel senso dell’esprimere che in quello dell’interpretare, ma poi prevalentemente solo in questa seconda direzione che si è affermata ufficialmente, infatti, con l’interpretazione (esegesi) dei sacri testi cristiani nell’età ellenistica, benché già presente, tuttavia, fin dalle origini della cultura nella società occidentale dell’antichità classica, prima nelle opere epiche che esprimono tutto il senso del mito tradizionale nella fondazione dei riti (Omero ed Esiodo), e poi con le questioni filosofiche e scientifiche che si propongono l’indagine della realtà, anche quella più recondita e nascosta, con la narrazione di nuovi miti o con l’argomentazione linguistica quale strumento della ricerca della verità (dialettica in Platone e logica in Aristotele). Molti pensatori, da allora e fino ad oggi, l’hanno intrapresa per cogliere il significato ontologico (come nella metafisica moderna da Cartesio), o causale e razionale (nella dialettica trascendentale di Kant e degli idealisti tedeschi, come nella dialettica storico-materialistica di Marx e di Engels[4]) di quella vera realtà che, per talune scuole di pensiero, sta dietro alla sua apparenza fenomenica e sensoriale qual è quella che, invece, possono percepire tutti spontaneamente.

         L’ermeneutica, però, è stata completamente rivisitata una prima volta da W. Dilthey alla fine dell’Ottocento con la proposta di una “teoria generale dell’interpretazione, vista come metodologia delle scienze umane  ... (Egli) sviluppò ulteriormente la teoria ermeneutica-esegetica nel senso di un’epistemologia e una metodologia della comprensione ... rivolgendosi alla teoria hegeliana dello spirito soggettivo e adottando la distinzione tra significato ed espressione proposta nelle Ricerche logiche di Husserl”[5]. In tal senso, infatti, finché l’ermeneutica è tesa all’interpretazione più o meno autentica dei testi sacri o del pensiero di un autore o dell’opera di un artista, il suo scopo è di riuscire a riprodurre tale significato, ma quando diviene il metodo d’analisi, ricerca e studio delle diverse manifestazioni della vita umana, della sua natura e della sua cultura il suo scopo diviene un altro e precisamente quello di produrre un nuovo significato di quell’oggetto secondo una visione personale che intende porsi su un piano generale (come in A. Schopenhauer, S. Kierkegarard,  poi negli spiritualisti e F. Nietzsche per rimanere nella filosofia, o nelle reinterpretazioni delle opere d’arte secondo nuove visioni di significato ecc.).

         Dilthey, perciò, si rivolge allo studio delle scienze dello spirito nella prospettiva di una conoscenza tendenzialmente oggettiva e per tale intento si scontra subito con il metodo del positivismo che vuole replicare nel mondo storico e umano quel metodo già utilizzato nel mondo naturale. Lo scontro è una diretta conseguenza del fatto che per l’A., mentre il mondo naturale è esterno al soggetto conoscente, quello umano, storico e sociale gli è interno, perciò l’oggetto di studio nel primo caso va “spiegato” mentre nel secondo va “compreso”[6] sulla base della capacità di “esperienza vissuta” (erlebnis) della vita (leben) nella sua immediatezza o spirito oggettivo. Sulla via della costruzione di una teoria generale dell’interpretazione (una vera e propria scienza del significato), infatti, l’A. preferisce il sentire e il volere contro il pensare che gli appare solo capace di rappresentare (kantianamente), ma non invece di comprendere (ermeneuticamente). Per tale motivo il percorso metodologico delle scienze dello spirito parte dall’esperienza vissuta, ma poi, per conseguire una prospettiva oggettiva, si estrinseca in altri due momenti: quello della “espressione” (prioritariamente linguistica), dove il contenuto dell’erlebnis viene elaborato mediante un’espressione simbolica e reso corrispondente ad una validità intersoggettiva, poi quello della “comprensione” storica che ritorna dal simbolo all’esperienza, perché basato sulla capacità di “rivivere” confrontando la propria con l’altrui esperienza. L’esito finale sarà la coscienza storica della finitezza e della relatività d’ogni fenomeno storico e d’ogni situazione umana e sociale; e, per designare questa finitezza dell’esistenza storica, Dilthey usa il termine “dasein”.

 

2) Comprensione esistenziale e ontologia linguistica (M. Heidegger e H.-G. Gadamer)

 

         M. Heidegger in “Essere e tempo” riprende il “dasein”, vale a dire dove è giunto Dilthey, ma con una concezione e in una prospettiva molto diversa (che qui, pur sintetizzando, si dovrà ripercorrere integralmente, perché unico modo per permetterne un’adeguata comprensione). Analizzando fenomenologicamente[7] l’essere (sein) degli enti, l’A. trova un ente che ha un rapporto privilegiato con l’essere al fine della sua comprensione, giacché la comprensione dell’essere è costitutiva del suo modo d’essere, e quest’ente è l’uomo o esserci (dasein). In tale prospettiva, dunque, da un lato il modo esclusivo d’essere dell’uomo è la condizione costitutiva della possibilità di senso dell’essere in generale, ma ciò vuol anche dire, da un altro lato, che per l’esserci il significato dell’essere può essere interpretato solo alla luce della comprensione costitutiva o precomprensione o, in altre parole, nel modo caratteristico dell’essere dell’esserci (ermeneutica dell’esserci).

         Approfondendo, inoltre, l’analisi dell’essere dell’esserci, l’A. trova un’altra caratteristica fondamentale: mentre per tutti gli altri enti, infatti, l’essere proprio esprime l’impossibilità di ciascun ente d’essere diverso da ciò che è, nell’uomo, invece, esprime la possibilità d’essere tale e quale esso progetta di essere. Perché, come anticipato, per l’ente capace di porsi la domanda sul senso del proprio essere (l’uomo), l’essere è propriamente un esserci; nel termine italiano il “ci” sta per “nel mondo”, intendendo una condizione mondana, perché risultato dell’insieme di essere come “esistenza” e di modo d’essere come “un avere da essere”. In questo secondo senso tale essere deve sempre rapportarsi al proprio essere, decidendone possibilità e prospettive: in altre parole deve rapportarsi al progetto dell’aver da essere. Tale rapportarsi all’avere da essere, dunque, ha un carattere costitutivo d’apertura ed esposizione (esistenza da ex-sistere), per questo l’esserci è un essere nel mondo e l’apertura è un prendersi cura. L’essere dell’esistenza, perciò, si rapporta all’aver da essere e non può farlo, se non nel prendersi cura.

         Heidegger, dopo aver denominato come “ermeneutica dell’esserci” la comprensione costitutiva del senso dell’essere da parte dell’esserci, torna ancora sulle modalità fondamentali dell’esistenza. Se l’essere nel mondo, infatti, è il suo carattere costitutivo, l’esserci per attuare questa struttura fondamentale del proprio “inessere” ha due possibilità: da un lato immedesimarsi nel mondo seguendo la chiacchiera banale e anonima, ovvero dall’altro lato conquistare la propria autenticità. E l’esserci può realizzare il proprio inessere attraverso la situazione emotiva e la comprensione. La prima è un’ineliminabile componente dell’esistenza, secondo quei caratteri costitutivi ed espressivi dell’esserci che dichiarano tutta l’effettività nella sua presenza al mondo, nel suo essere gettato nel mondo e nel suo abbandonarsi al mondo. Le situazioni emotive, tuttavia, sono principalmente due: la paura e l’angoscia che caratterizzano rispettivamente la condizione d’inautenticità di chi vive nella chiacchiera banale della quotidianità e l’esistenza autentica di chi, invece, si progetta per conquistarsi.

         La prima nasce sulla base dell’essere davanti a qualcosa del mondo e nel temere per se medesimi, mentre la seconda, invece, non è determinata dalla considerazione di avere qualcosa davanti, perché il mondo non ha più alcun significato, ma dall’aver davanti il nulla, vale a dire l’estraneità del mondo e quell’unica possibilità autentica che è rappresentata dalla morte. La funzione della comprensione nello sviluppo dell’esistenza è strettamente legata alla situazione emotiva, ma mentre questa si rivolge al passato, al contrario la comprensione apre al futuro, divenendo il progetto dell’aver da essere dell’esserci. Su tale dimensione si fonda l’interpretazione e su questa, a sua volta, l’asserzione (come discorso). Così la verità è l’esito dell’apertura originaria dell’esserci al mondo nella forma della situazione emotiva, della comprensione e del discorso, di contro alla teoria tradizionale del giudizio (kantiano) del conoscere. “L’uomo è apertura alla verità dell’essere in quanto è consapevole della condizione dell’esserci, ossia delle condizioni della sua reale esistenza. Per questo viene definito da Heidegger <Dasein>, esserci, la cui esistenza più profonda è la temporalità, la storicità, che emerge da tutte le sue strutture esistenziali, che è appunto compito dell’<analitica dell’esistenza>, ovvero l’ermeneutica, descrivere e comprendere ... Nell’ermeneutica di Heidegger rivive sia il circolo ermeneutico precomprensione-comprensione di Schleiermacher, sia, soprattutto la nozione di <storicità> dell’esistenza di Dilthey; anche se tali nozioni vengono depurate ... per divenire solo <strutture> ontologiche del Dasein”[8].     

         Anche H.-G. Gadamer, nel costruire una propria teoria dell’esperienza ermeneutica, riprende la riflessione di Heidegger sulla comprensione che precede ogni atto interpretativo come modalità tipica dell’essere umano, forma del suo essere al mondo, per rivalutare il pregiudizio quale presupposizione necessaria al costituirsi di ogni comprensione ed espressione nella storicità della coscienza. Il problema, allora, è quello di distinguere tra pregiudizi veri, alla luce dei quali comprendere, da quelli falsi che, invece, conducono al fraintendimento, mentre il giusto riconoscimento della distanza temporale dell’interprete dal testo o dall’opera, contro lo storicismo che preconizza una comprensione come riproduzione dell’atto creativo originario, concessa dal sapersi trasporre nell’orizzonte del significato sviluppato dalla comprensione storica, favorisce un atto produttivo di una comprensione anche diversa da quella intesa a suo tempo dall’autore. Ciò è possibile perché la comprensione è sempre integrazione tra il mondo linguistico dell’interprete e quello dell’opera da interpretare.

         In “Verità e metodo” l’A. può, infatti, decisamente affermare che l’essere che può venir compreso è linguaggio, come orizzonte che non si può superare nell’esperienza del mondo dell’uomo. “Con questo riconducimento dell’esperienza ermeneutica alla dialettica ... Gadamer  ... ha di mira ... la delineazione di una ontologia linguistica, nella quale trovi infine il suo fondamento l’edificio dell’ermeneutica filosofica”[9]. Contrariamente alla prospettiva di tutta la tradizione dialettica, tuttavia, la comprensione per l’A. non è affidata all’esattezza delle asserzioni, ma alla capacità propria del dialogo di tenere unito nell’unità di senso sia quanto è detto sia tanto altro non detto. Il linguaggio, in altre parole, diviene ciò che attua un senso nello svolgimento del discorso e della comprensione, perciò è l’elemento che può davvero configurare l’intera esperienza del mondo per l’uomo.

 

3) Due vie ermeneutiche e fondazione di una grande ipotesi di sfondo (L. Pareyson)

 

         Certamente non si conclude qui il percorso dell’ermeneutica, perché ulteriori approfondimenti, cesure, distanziamenti e rinascite ne caratterizzano gli sviluppi negli Autori contemporanei; non è più, tuttavia, compito nostro seguire questi itinerari filosofici, meglio delineati dagli studiosi indicati in bibliografia, giacché gli elementi fondanti per il pensiero pedagogico sono già stati delineati e su di essi ora è possibile avviare le prospettive d’analisi e studio tipiche dell’approccio al problema educativo, tenendo presente che due sembrano le vie principali che inferiscono ad una costruzione ermeneutica. La prima è quella che si avvicina al problema dell’educazione tenendo presente la progettualità dell’esserci eideggeriano e fonda le sue radici nell’analisi dell’esistenza del soggetto in fase di crescita e sviluppo (fenomenologia dell’esistenza); la seconda, invece, fa leva sul discorso come interpretazione del fenomeno educativo, capace di inverare il significato dell’esperienza educativa attraverso la ricostruzione linguistica, o facendo ampio ricorso e riferimento alle dimensioni filologiche (ermeneutica), o semplicemente prospettando compiuti orizzonti di senso (dialettica); in questo modo molti Autori italiani possono ricondursi alla prospettiva ermeneutica o alla comprensione pedagogica, forse anche al di là delle loro intenzioni.

         Questo è precisamente il caso di L. Pareyson, autore di “una delle più originali e vigorose teorie dell’interpretazione”[10], ma che non si è occupato mai direttamente di pedagogia, benché abbia approfondito il carattere formativo della produzione (artistica) umana. Si propone tale A. proprio all’inizio di questo percorso d’analisi, perché il suo concetto di persona può costituire il presupposto e il riferimento dell’intera educazione contemporanea. Per l’A., infatti, né l’idealismo, né l’esistenzialismo (o il marxismo) possono fondare il concetto di persona in modo positivo partendo, come fanno, da concezioni negative del reale (finito), perché nel primo caso non si potrà pervenire che alla dissociazione del reale dall’ideale (del finito dall’infinito) e la trascendenza o inconciliabilità della verità e dell’essere rispetto alla realtà, mentre nel secondo si potrà anche conseguire una positività del reale, ma a prezzo dell’eliminazione dell’infinito e della trascendenza della verità e dell’essere. Da questa premessa l’A. sviluppa il suo intento di rivalutare il reale (finito) costruendo un nuovo rapporto ontologico con l’essere: il concetto di persona, perciò, è validamente posto soltanto quando è considerato nel suo originario rapporto con l’essere; anzi, il finito, in altre parole la persona, non sono altro che apertura all’essere, o meglio ancora rapporto con l’essere. La persona, perciò, per Pareyson è integralmente nel rapporto che essa intrattiene con l’essere, conseguentemente da tale relazione è possibile ricavare una considerazione oggettiva dell’essere, dal momento che la persona medesima è un singolare modo di vivere e interpretare il rapporto con l’essere.  

         Il rapporto con l’essere che è la persona, tuttavia, pur risultando un elemento originario, non è dato e fissato per sempre, in tal senso è soltanto possibilità, compito, dover essere della persona che tale opportunità è chiamata a render effettiva situazione dell’esistenza mediante una precisa decisione. L’essere che è la persona, o umanità, non si configura come l’essere al mondo di un oggetto, ma come l’aprirsi di una missione, di un compito, di un orizzonte di vita all’interno di una scelta concreta di libertà che si determina quando il singolo soggetto la realizza in sé, la fa sua. Da ciò l’A. può dire che l’essere della persona, siccome rapporto ontologico, non è altro che lo sviluppo originario e originale di un’intenzione libera assunta inizialmente. Oltre a quest’aspetto ontologico, il rapporto con l’essere che è la persona ha anche un altro aspetto fondamentale. Si tratta della dimensione dialettica tra opposti “stati” che insorge nello sviluppo vitale della persona, anzi di una “dialettica concreta” tra passività e attività, tra necessità e libertà e molte altre antinomie; questa dialettica come proposizione d’opposti che caratterizzano processualmente l’esistenza della persona “non ha minimamente lo scopo di dimostrare l’onnipotenza sofistica della speculazione, ma certamente assai più prezioso, di mettere in evidenza che la dialettica è interna a entrambi gli estremi, e che pertanto è impossibile raggiungere un dato primo non ancora qualificato dall’iniziativa, o una forma di libertà assolutamente creativa ... Il fatto che la situazione appaia sempre all’interno d’una dialettica ... è un nuovo concetto di libertà, vista come l’evento decisivo originario e fondante, dal cui esercizio dipendono i significati stessi della situazione e dell’essere”[11].

         Così accade anche per l’antinomia tra ricettività e attività, collegata con una teoria dell’interpretazione come processo produttivo, studiato inizialmente in campo artistico dove il formare (creare) l’opera d’arte consiste in un fare che, mentre fa, inventa il modo di fare e perciò è costantemente esposto ad un rischio di fallire, da superare solo perseguendo altre prove di fare, fino a quella che consiste nella scoperta dell’unica possibilità di fare l’operazione richiesta dalla riuscita della formazione (creazione) medesima. Questo processo, poi, è facilmente trasponibile ad ogni forma di produttività nella vita della persona e in particolare in quello della conoscenza. Nel giudizio estetico, infatti, si trasferisce su un oggetto sensibile e reale il sentimento morale che attiene alla ragione soprasensibile: si tratta di una forma di contemplazione che, ben lungi da essere solo un riconoscimento passivo, si configura come espressione di un senso spirituale, e dunque un altro atto produttivo, formativo. Anche qui, perciò, si assiste ad un processo dialettico tra antinomie che si trasferisce sulla struttura dell’interpretazione: questa è, infatti, il momento di sintesi finale di un percorso di produzione di forme in cui racchiudere unitariamente il senso della realtà e che si può realizzare solo dopo aver superato una fase iniziale, quando cioè la presenza ai nostri sensi delle cose ha determinato una distinzione tra le cose medesime e le immagini percettive delle stesse. La verità esiste, per l’uomo, solo come interpretata, mai assoluta, ma non per questo compromessa.   

         A questo punto la riflessione dell’A. torna agli studi sullo storicismo per completare la sua ipotesi: alla radice dell’esistenza si deve scegliere se essere storia o avere storia (intendendo con quest’antinomia la scelta tra farsi strumento di rivelazione della verità o accettare un’identificazione con la propria situazione storica; essere protagonista della verità o semplice prodotto storico). Questo dilemma non si configura soltanto come problema di conoscenza, ma ha soprattutto espressione nella radicazione dell’uomo nell’essere, ovvero nel carattere ontologico del rapporto con l’essere che è l’uomo, carattere che dà compiutamente luogo a tutta la sua possibile libertà.

 

4) Il momento fenomenologico dell’esistere pedagogico (P. Bertolini)

 

         La prima via che abbiamo indicato nella prospettiva ermeneutica applicata all’educazione trova in Italia un ampio gruppo di estimatori e un clima di scuola di pensiero pur tra le diverse e variegate posizioni. Tra questi estimatori P. Bertolini mostra un tipico percorso di ricerca, partendo da premesse fenomenologiche e sviluppando conseguenze esistenzialistiche, che qui si vuol sintetizzare a scopo metodologico. Il punto d’avvio è una visione negativa della società contemporanea in crisi esistenziale complessiva, inizialmente caratterizzata dalla caduta di filosofia, scienza e politica, poi ampiamente criticata alla luce di proposizioni sociologiche più o meno dichiaratamente interpretate in senso politico e progressista. Il superamento di questa condizione negativa va realizzato per l’A. alla luce della riflessione husserliana e mediante la riaffermazione della soggettività dell’Io (della persona) attraverso la presa di coscienza della sua identità e della sua responsabilità nell’evoluzione personale. Questa soggettività è caratterizzata dall’intenzionalità dell’oggetto che, nell’ambito della conoscenza, si esprime come un “processo costruttivo sempre dinamico e dialettico (dunque, storicamente condizionato), nel quale ciò che conta è la relazione tra soggetto e oggetto e di conseguenza l’essere in quanto si manifesta e si rivela ... il problema della conoscenza e della verità si affronta e si risolve ... con lo sforzo di cogliere di ogni fenomeno (di ogni realtà) il senso o il significato ... nella consapevolezza che l’unica verità-per-l’uomo che conta davvero è l’insieme dei significati che egli contribuisce a determinare”[12] (questo però porta ad accettarli comunque, e perciò anche quando sono negativi o addirittura conducono al nichilismo: atto che non tutti possono condividere).

         L’approccio fenomenologico, così come per il soggetto e l’oggetto, parimenti non può parlare dell’io (la personalità) senza l’altro (le personalità), così nel ritorno alla soggettività si manifesta anche necessariamente “il ritorno all’altro dall’Io”[13]; tutto ciò determina un’intersoggettività coinvolta nel dar senso al pari della soggettività, dove la verità per noi, pur trascendente quella per me anche senza eliminarla, costituisce per l’A. la “cultura” da intendere in senso antropologico, mentre l’insieme delle verità per noi costituiscono il “sapere” consapevole. Su queste prime indicazioni sorge il percorso dell’educazione con l’intento pedagogico di non sostituire l’esperienza esistenziale dell’essere nel soggetto dell’apprendimento con proposte, modelli e schematismi precostituiti che, perciò, lo costituirebbero come oggetto; in questo senso l’insegnante che imponesse la sua volontà, o la scuola che obbligasse all’accettazione di un sapere già tutto definito possono rovesciare negativamente la relazione adulto/bambino. Al contrario è necessario considerare e assecondare l’intenzionalità della coscienza del soggetto nell’esperienza formativa e in una situazione vitale, sempre perciò situata nella relazione, in vista di un proprio progetto e nella proiezione verso il futuro: senza togliere, per altro, il senso dell’urto con la realtà oggettiva e soggettiva o il gusto del superamento della difficoltà; facendo leva sulla corporeità del soggetto come elemento di base della sua personalizzazione e perciò andando oltre le semplici istanze naturalistiche o idealistiche dell’educazione fisica del passato; assicurando, infine, la piena considerazione delle autonome prospettive di sviluppo secondo quella direttiva che il soggetto si va definendo.

         In questa direzione si tratta di favorire nel soggetto in apprendimento il passaggio da un livello di costruzione della personalità tendenzialmente passivo, così come si configurano i primi tempi dello sviluppo, ad un livello di costruzione personale più attivo e consapevole. Ciò significa che il soggetto deve pervenire ad una sua propria visione del mondo che lo indirizzi nell’azione e lo renda responsabile nella partecipazione alla costruzione di un autentico impegno sociale e politico: come dice Bertolini, un’educazione al senso di responsabilità nel rispetto di sé e degli altri. L’immagine speculare di questo processo dell’allievo è costituita dal ruolo del docente che deve sentirsi un tecnico dell’intenzionalità (dell’altro) e che deve precisare la sua azione nel senso dell’animazione piuttosto che nella direzione della trasmissione rigida di determinati contenuti. Le due tendenze estreme, ovviamente, vanno escluse, sia quella di far permanere il soggetto in apprendimento ad un livello passivo e dipendente di costruzione della personalità, sia l’altra di sovradimensionamento del livello di costituzione attiva che porta nell’interazione ad inglobare l’altro nel proprio sé, alienandolo aggressivamente dal suo.

         La visione del mondo che il soggetto in apprendimento sviluppa in modo personale è la chiave di volta dell’intero processo educativo, perché da un lato costituisce la vera realtà (culturale) di riferimento di ciascuno, l’insieme dei significati delle proprie relazioni con il mondo e gli altri, mentre da un altro lato rappresenta il sistema motivazionale dei comportamenti e delle azioni che ciascuno realizza nella sua esistenza. Dice esplicitamente Bertolini[14] che questa visione del mondo interessa in modo particolare all’educazione soprattutto perché essa è condizionabile attraverso i processi educativi e poi ancora perché solo con riferimento ad essa è possibile realizzare un rapporto autenticamente educativo, fondato su una comunicazione significativa dove si parla il medesimo linguaggio che parla il soggetto in apprendimento, ovvero dove si attua un rispecchiamento, attraverso l’atto del mettersi al posto dell’altro, per comprenderlo. Solo da questa posizione è possibile, allora, anche nei casi più difficili di disagio sociale o di problema esistenziale, impostare una rieducazione del soggetto attraverso il suggerimento di un cambiamento nella propria visione del mondo che, poi, dovrebbe determinare anche un cambiamento conseguente nel comportamento.

         Per contribuire alla costruzione della visione del mondo, infine, l’azione educativa e quella rieducativa (perché per l’A. non sussiste alcuna vera distinzione tra questi due aspetti della pratica educativa, ma solo una differenziazione sulla base dell’intensità degli interventi, maggiore per la rieducazione) che vogliono rispettare i canoni dell’approccio fenomenologico (che per Bertolini sono i canoni della vera scientificità), non possono consistere nell’imposizione di una visione da altri definita, ma devono compiersi facendo vivere al soggetto in apprendimento quelle situazioni nuove e stimolanti, quei contatti non superficiali ed evanescenti con la realtà materiale e culturale che possono espandere la sua esperienza esistenziale, mettendolo nelle migliori condizioni per costruirsi una più ricca e vitale visione (nel soggetto senza problemi) ovvero una diversa visione (per il soggetto con problemi).

         Come già accennato, per l’A. a questo punto si tratta di costruire una pedagogia come scienza e a tale intento non sono dedicate poche energie e scarsi lavori d’approfondimento; al contrario. Per il nostro intento, tuttavia, la più autentica lezione bertoliniana finisce qui. Non senza ricordare come, sulla scorta delle prospettive pedagogiche disegnate da P. Bertolini, si sia sviluppata una forte convergenza di consenso politico e culturale e in conseguenza di ciò la fenomenologia dell’esistere pedagogico sia divenuta il preciso e puntuale riferimento di tutta una generazione di insegnanti e di altri attori sociali progressisti ed antiautoritari, soprattutto dopo il Sessantotto, benché tali prospettive risultassero forse più corrispondenti al livello primario della scuola italiana, che non a quelli secondari e comunque battessero certamente contro la richiesta di riconoscimento di specifica professionalità degli operatori di questi livelli scolastici.

 

5) Il momento didattico delle forme simboliche nella pedagogia della cultura (L. Rosati)

 

         La seconda via che abbiamo individuato nella prospettiva ermeneutica applicata all’educazione, non trova in Italia molti seguaci, schiacciata com’è tra due posizioni opposte e cioè tra la prima via ermeneutica e gli estimatori del pensiero scientifico (oggettivo). I pochi Autori che si riconoscono in quest’approccio (senza per ciò appartenere pienamente al Personalismo cattolico), tuttavia, sono caratterizzati da una visione tendenzialmente positiva della società contemporanea, anche se non scevra di capacità e d’intenti critici della medesima. In questa direzione L. Rosati, pur partendo da una tematizzazione piuttosto specifica e locale come quella che discute la didattica quale disciplina pedagogica autonoma, guarda però subito ai fondamenti della cultura e vede nascere su quest’orizzonte l’alba di un nuovo umanesimo critico e problematico, dove l’educazione, quando illuminata da ideali, è la condizione che rende possibile per ciascuno la costruzione del sapere come liberazione del potenziale di forze interiori e profonde di cui dispone, mediante un’indagine specifica tesa alla ricostruzione dell’opera dell’uomo, al fine di cogliere l’intima struttura del suo operare.

         In questo senso, dunque, l’umanità, sia come prodotto materiale e spirituale che come processo di formazione (paideia, humanitas, bildung), è il risultato della produttività delle diverse discipline, intese come le forme simboliche (lingua, arte, scienza, storia, religione) che possono sviluppare tutte le diverse potenzialità e caratterizzazioni del pensiero umano, perché matrici della relazione educativa su di un duplice livello: nella dimensione pedagogica, unificate come sono nelle finalità dallo sguardo solidale della “filosofia della cultura”, e in quella metodologico-didattica, rappresentando anche il sistema d’elementi fondamentali che definisce la struttura diretta dell’insegnamento agli studenti delle età maggiori, e comunque almeno indirettamente, come il riferimento della mediazione del docente, anche negli allievi di età infantile. La filosofia della cultura, infatti, risolve ogni forma di dualismo, vecchio e nuovo che si voglia, perché “l’attenzione prestata all’uomo consente di scoprire che egli, in una condizione gnoseologica costante, ha il potere di cogliere la realtà nella sua unità e di riconoscere in essa la propria produzione creativa spirituale ... Che fenomenologia ed esistenzialismo siano - una delle testimonianze più attendibili della presenza operante nella società contemporanea della filosofia della cultura -, può anche essere vero, tuttavia essa diventa umanesimo programmatico, oggi, quando si apre al futuro, indicando i percorsi dell’intelligenza per la costruzione di un domani di pace, di libertà, di autenticità della persona.”[15]

         L’unità della filosofia della cultura, dunque, si manifesta nelle diverse forme simboliche, le forme viventi del pensiero e dell’espressione che si realizzano secondo uno scopo comune d’edificazione del mondo umano, di quell’universo culturale segnato insieme dalla razionalità e dal sentimento dell’uomo costruttore di simboli, strumenti e valori mediante il linguaggio. Il linguaggio, infatti, può dar conto dello sviluppo storico che va dal mito alla religione, dall’arte alla tecnica e alla tecnologia, dalla filosofia alla scienza, ciascuna forma secondo una propria grammatica di segni e una propria sintassi di significati, pur secondo il comune valore strumentale di soddisfacimento dei bisogni, di prefigurazione delle aspirazioni e d’apertura al trascendente dell’essere umano. Questi simboli divengono così la trama e l’ordito della tessitura culturale e si offrono alla considerazione epistemologica per lo sviluppo di una prospettiva metodologico-didattica della cultura. La pedagogia della cultura, perciò, non è soltanto una lettura in chiave storico-filosofica della produzione delle forme simboliche, ma anche una proposta “teorica di base per una dimensione generale della didattica intesa in senso globalmente umanistico. Pedagogia della cultura e didattica qui trovano l’orizzonte fondante in una dimensione filosofica (e per la prospettiva personalistica assunta dall’Autore, anche metafisica, almeno sotto il profilo della richiesta di senso), mentre trovano gli agganci produttivi in termini epistemologici, euristici e operativi in una interpretazione interdisciplinare del convergere delle scienze umane”[16]

         In questa dimensione l’apprendimento per l’A. è un processo attraverso il quale il soggetto tende ad impadronirsi della cultura del suo tempo, in ogni cultura, anche quella più semplice e povera (perché ogni cultura è portatrice d’elementi di senso e di valore) cioè ad appropriarsi degli strumenti, dei simboli e dei valori nelle forme e nelle modalità caratteristiche del tempo storico in cui si vive, non senza prospettive di rinnovamento e trasformazione. E parimenti l’insegnamento è il processo speculare che accompagna l’attività costruttiva della mente nel suo itinerario teso inizialmente al controllo e poi all’uso personale e creativo dei significanti culturali. Ma l’insegnamento ha bisogno di un principio che indichi percorsi, passaggi, azioni; ha bisogno in definitiva di una filosofia dell’educazione che, dimesse le pregresse ricerche su dimensioni metafisiche e sistemiche dell’essere in sé, si applichi ad un campo caratterizzato da valenze operative e morali, politiche e scientifiche ecc. qual è quello dell’educazione reale. In questo suo compito la filosofia dell’educazione può sicuramente fare riferimento agli approfondimenti offerti dalle filosofie delle singole forme simboliche (filosofia del linguaggio, dell’arte, della scienza ecc.) e dalla scienza che, quantunque incapace di conoscere l’essere assoluto, propone un itinerario epistemologico di ricerca di certezze possibili (dalla definizione dell’ipotesi, alla sua verificazione o falsificazione per un temporaneo accredito di fondatezza e la conseguente nuova ri-definizione dell’ipotesi che riavvia tutto il processo sperimentale) sul reale.

         Così la pedagogia della cultura discute criticamente e s’appropria degli studi della psicologia che sono capaci di svelare la natura dei processi di sviluppo e di apprendimento, o della psicoanalisi per la conoscenza dell’io profondo e dei dinamismi psichici, procedendo con analisi che portano ad accantonare il comportamentismo o, all’opposto, il mentalismo, per favorire il cognitivismo, come tendenza che valorizza l’attività propria del soggetto per il suo sviluppo e per il miglioramento progressivo della qualità dell’esperienza personale. In quest’ambito, ancora, l’A. discute i concetti fondamentali di funzione e di struttura (da Claparède a Bruner, passando per Piaget) per poi tornare alle discipline come sistemi ordinati e organizzati, su cui si fonda la conoscenza e il dominio del nostro mondo e perciò oggetto dell’educazione: “Dalla struttura interna della disciplina deriva l’organizzazione dei contenuti, che risponde alla struttura propria della mente dell’alunno che apprende”[17]; si configura così la didattica come teoria della cultura e si possono aprire nell’ultima parte del lavoro le linee epistemologiche delle didattiche della lingua, della scienza, dell’arte, della storia e della religione, preziosa indicazione e proposta per il docente.

        

6) Bibliografia

 

1.     M. P. Dellabiancia, Momenti di pedagogia e scienze dell’educazione in Italia dopo il fascismo in wwww.dellabiancia.it/pedagogia

2.     M. P. Dellabiancia, La pedagogia clinica: da origini medico-psicologiche a sviluppi di pedagogia scientifica e speciale,  in wwww.dellabiancia.it/pedagogia

3.     M. Jung, L’ermeneutica, Il Mulino Bologna 2002 

4.     L. Sichirollo, Dialettica, ISEDI Milano 1973

5.     J. Bleicher, L’ermeneutica contemporanea, Il Mulino Bologna 1986

6.     M. P. Dellabiancia, Approccio alla pedagogia generale e sociale (per i corsi di Laurea nelle Professioni Socio-Sanitarie) in www.nonsolofitness.it/dellabiancia

7.     G. Mura, Ermeneutica e Verità, Città nuova Roma 1990

8.     F. Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza Roma-Bari 1998

9.     A. Rosso, Ermeneutica come ontologia della libertà, Vita e Pensiero, Milano 1980

10. P. Bertolini, La mia pedagogia, in La pedagogia Italiana contemporanea, Pellegrini Cosenza 1994

11. P. Bertolini, L’esistere pedagogico, La nuova Italia Firenze 1988

12. L. Rosati, Metodologia della cultura e didattica, La Scuola Brescia 1988

 

Cattolica, marzo 2006                                                          Marco Paolo Dellabiancia


 

[1] M. P. Dellabiancia, Momenti di pedagogia e scienze dell’educazione in Italia dopo il fascismo, 2° paragrafo in wwww.dellabiancia.it/pedagogia

[2] M. P. Dellabiancia, La pedagogia clinica: da origini medico-psicologiche a sviluppi di pedagogia scientifica e speciale,  in wwww.dellabiancia.it/pedagogia

[3] M. Jung, L’ermeneutica, Il Mulino Bologna 2002, dall’Introduzione a pag. 7 

[4] L. Sichirollo, Dialettica, ISEDI Milano 1973, capitolo 8°

[5] J. Bleicher, L’ermeneutica contemporanea, Il Mulino Bologna 1986, pag. 11

[6] M. P. Dellabiancia, Approccio alla pedagogia generale e sociale, in www.nonsolofitness.it/dellabiancia, 1° paragrafo della prima parte

[7] La fenomenologia di E. Husserl si propone di indagare i fenomeni così come si offrono all’intenzionalità dalla coscienza nella concreta esperienza vissuta o “Erlebnis”, indicando la vera via della conoscenza, contro quelle idealistica e realistica.

[8] G. Mura, Ermeneutica e Verità, Città nuova Roma 1990, pagg. 220 e 221

[9] F. Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza Roma-Bari 1998, pagg. 161 e 162

[10] A. Rosso, Ermeneutica come ontologia della libertà, Vita e Pensiero, Milano 1980, pag. 1

[11] A. Rosso, Op. Cit. pagg. 42, 43 e 44

[12] P. Bertolini, La mia pedagogia, in La pedagogia Italiana contemporanea, Pellegrini Cosenza 1994, pagg. 47 e 48

[13] P. Bertolini, L’esistere pedagogico, La nuova Italia Firenze 1988, pag. 75

[14] P. Bertolini, La mia pedagogia, Op. Cit. pag. 51

[15] L. Rosati, Metodologia della cultura e didattica, La Scuola Brescia 1988, a pagg. 36 e 37

[16] G. Acone, Presentazione, in L. Rosati, Op. Cit. pag. 6

[17] L. Rosati, Op. Cit. pag.102

 

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